Il lavoro del boscaiolo

I nostri nonni e padri ricordano con sicurezza che il massimo sviluppo del mestiere del boscaiolo si ebbe fra le due guerre mondiali, quando era necessario recuperare in fretta il legname deteriorato o abbattuto dalle vicende belliche sulla catena di Lagorai. In quegli anni, di scarsa occupazione in altri campi, molti operai si erano raggruppati in “compagnie” per tagliare e lavorare i tronchi e per ripulire in fretta ogni schianto ed ogni cascame onde evitare l’attacco al bosco del temutissimo bostrico o “bècherlo” (ips typographus). Ma arretrando nel tempo, diventa difficile avere la certezza che quello del boscaiolo fosse considerato un mestiere, per mancanza di attestazioni scritte.

A metà dell’Ottocento, ai fini fiscali quell’attività viene citata solo per pochi individui i quali forse non potevano qualificarsi come contadini perché privi di qualsiasi proprietà terriera. Probabilmente nelle società trascorse il mestiere del boscaiolo era considerato così poco “specializzato” e praticato con buona perizia da tanti uomini che non rientrava fra le occupazioni artigianali. È impensabile infatti che non esistessero boscaioli, e addirittura in gran numero, specialmente in quel Settecento che vide i boschi comunitari e anche regolieri affittati “in piedi” ai mercanti forestieri, che ne ricavarono grandi fortune e posero a rischio l’esistenza addirittura delle nostre foreste, come altrove fu praticato con danni irreparabili per l’ambiente e la sicurezza del territorio. Oltre a ciò, nei diversi “Libri de voti” o verbali di Regola del Settecento compaiono continue richieste di legname da fabbrica, allestito naturalmente dallo stesso richiedente. Di grande interesse è ancora un quaderno di Tesero per l’assegnazione di legname vario (abete, larice, cirmolo) in cui si teneva nota puntuale delle richieste e dei prelievi dei privati sui boschi della Comunità. Ma forse, la controprova migliore del fatto che “tutti erano boscaioli”, si ha nelle norme degli “Ordeni de Boschi” della Magnifica, per esempio nella stesura del 1605. Ivi si precisano i boschi “ingazati” e riservati unicamente per legname da fabbrica. Fra gli altri: la Cùgola, la Rocca, Cornon, Viezzena, Friul, Cece e Zocaré sulla Bellamonte (ridotto in seguito ad alpe falciabile). In questi boschi il vicino poteva soltanto ricavare legname da fabbrica, mentre su tutto il resto del territorio, e in particolare su quello delle Regole, il taglio era libero sia per bisogni propri che per la vendita, entro una quantità prestabilita e sotto il controllo dei saltari forestali.

Quindi, se nei documenti antichi non si nominavano esplicitamente i boscaioli, ciò avvenne perché questo lavoro si configurava come una generica e ordinaria attività rurale del contadino. Sembra una cosa ovvia, ma in ciò pare di intravedere una traccia antica del dissodatore neolitico di cinquecento anni prima di Cristo, che per ricavare campi e ronchi doveva dapprima farsi boscaiolo e abbattere le piante che ingombrano il terreno.

Le fasi del lavoro

La Fluitazione

Fino a centocinquant’anni fa o poco meno, il lavoro più impegnativo dei boscaioli, da svolgere in gruppi molto numerosi, era quello della fluitazione, cioè del trasferimento dei tronchi da monte a valle sulle acque dei torrenti. Sembra che la pratica durò fino al 1870 circa, con qualche ricordo più recente. Mancano purtroppo le immagini fotografiche, salvo quelle che mostrano imponenti cataste di tronchi presso il bacino di decantazione ad est di Predazzo. Solo pochi corsi d’acqua potevano consentire questo tipo di trasporto che si rendeva necessario in assenza di strade di monte praticabili da robusti carri da trasporto. Forse, ma è solo un’ipotesi, la fluitazione sui torrenti immissari dell’Avisio, fu praticata soprattutto dai mercanti forestieri ai quali importava poco che il legname si deteriorasse in notevoli quantità, come effettivamente avveniva con disappunto dei segantini. Una riprova di questa ipotesi sta nella presenza di documenti del Cinquecento che parlano di esbosco anche con carri dalla Val Cadino. Il metodo della fluitazione prevedeva una diga di tronchi e di terra a monte in modo da creare un bacino artificiale. I tronchi tagliati erano accostati in qualche modo al letto del torrente e, quando lo sbarramento precario (“la stua”) veniva fatto saltare, una irruente massa d’acqua trascinava a valle il legname ammassato sulle rive. Una parte si impigliava in ostacoli naturali e quindi l’operazione doveva essere ripetuta con un’altra ondata di piena. A valle, il legname veniva fermato facendo calmare le acque in apposite conche in parte artificiali e i boscaioli tiravano a riva i tronchi con lunghi arpioni che in seguito rimasero in dotazione ai pompieri. Dove era praticata, la fluitazione ha lasciato qualche nome di luogo: la Malga della Stua presso lo sbocco di Ceremana sul Travignolo, Stuet nel Valonat, ma soprattutto la Val delle Stue in Cadino.

Assai spesso però, questo metodo provocava danni ingenti alle strade ed ai campi. Dei pericoli derivanti da questo metodo di avvallare i tronchi è testimonianza un verbale della Regola di Predazzo: “12 settembre 1802. Questa Regola non può permettere, ne tolerare che venga erretto delle Stuve d’acqua sopra il Torrente Travignolo, mentre a cagione di queste, abbiamo provato li lacrimevoli effetti, e segnatamente l’anno 1748 con rovinarci pressoché tutta la nostra campagna”.

Non è noto come si praticasse la fluitazione sul torrente Avisio: la “menada”, storicamente assai più antica e controllata dal fisco vescovile, è testimoniata nei regolamenti sull’esportazione del legname e fu certamente di grande consistenza per molti secoli. Basti una citazione per tutte: nel Cinquecento un impresario forestale nel giro di una stagione trasferì diecimila tronchi con cinquanta paia di buoi dalla località Canton in Cadino alla sponda dell’Avisio, pronti per la fluitazione verso l’Adige. In assenza di nomi di luogo che ricordino sbarramenti eretti allo scopo, viene da pensare che sul torrente principale di fondovalle, piuttosto che provocare artificialmente una spinta d’onda, si preferiva attendere una delle tante piene primaverili o autunnali che rendevano anche il lavoro meno pericoloso e richiedevano soltanto un gran numero di uomini per lunghi tratti del corso d’acqua onde convogliare quei tronchi che si fermavano o si impigliavano fra i sassi e i cespugli. La tappa finale erano “i Vodi” di Lavis, oltre i quali il legname veniva allineato in lunghe zattere sulle acque più calme dell’Adige.

L’abbattimento delle Piante

Il lavoro specifico del boscaiolo è naturalmente quello del taglio dei tronchi nel bosco. Da secoli norme piuttosto precise cercano di impedire disboscamenti selvaggi o danni al bosco che deve rimanere in piedi. Si dice in genere che vanno abbattute solo le piante mature e quando la cessazione della crescita è in realtà evidente: la cima si allarga in più rami spuri, la corteccia si squama, crescono sui rami muschi e licheni. L’età di maturazione dipende da luogo a luogo. Nelle posizioni più favorevoli e sui terreni fertili un tempo si abbattevano abeti di circa centoquarant’anni con un diametro alla base intorno a un metro e mezzo. Oggi spetta alla guardia forestale consentire l’abbattimento delle piante, sia sulle proprietà pubbliche che su quelle private (“martelàr”, segnare con un particolare martello-accetta). Resta tuttora in piedi la controversia che fa discutere le diverse scuole forestali. In passato l’abbattimento si faceva a “fratta”, cioè esteso a larghe chiazze nelle quali quasi subito e per anni cresceva un sottobosco di fragole, lamponi, mirtilli e altri frutti minori utilizzati nella cucina tradizionale. Più di recente invece invalse l’uso di scegliere unicamente le piante mature e lasciare in piedi le altre, attirando con ciò la critica che “si apre” il bosco, si favoriscono gli schianti per il vento e comunque si danneggiano le piante giovani vicine. Ancora una differenza dei tempi: oggi i boscaioli incominciano a lavorare appena la neve e il disgelo lo consentono fino all’inverno successivo. Un tempo invece l’abbattimento avveniva soltanto nei mesi in cui le piante avevano la linfa (“andavano a lat”), cioè durante il periodo vegetativo e quindi il lavoro era sospeso in estate, anche perché ognuno doveva pensare alla fienagione e ai lavori nei campi. Prima attenzione del boscaiolo è quella di osservare a lungo il luogo più opportuno per far cadere la pianta, per non danneggiare le altre, o perché non si impigli o non si spezzi nella caduta. In genere però la pianta viene fatta cadere verso valle o in modo da rendere più facile la successiva diramatura. Gli attrezzi per l’abbattimento erano un tempo le scuri con ferro stretto e allungato perché penetrassero più a fondo (“manèra” o “manara”). In un secondo momento si introdussero i segoni a due mani e infine oggi l’uso generalizzato è quello della motosega con la quale in pochi secondi un solo uomo abbatte piante di qualsiasi diametro. Dei tempi antichi è però rimasto qualche cosa: l’attenzione ad essere soli, lo studio prolungato della caduta, la posizione del boscaiolo molto vicina al ceppo del tronco perché è il posto più sicuro; e inoltre anche in chi usa i mezzi più moderni si nota un modo di lavorare “atavico”, cioè una gestualità antica.

Diramazione e Riduzione in Pezzi

La diramazione avviene di solito quando il tronco è a terra, solo in casi particolari si “capóna” la pianta in piedi per evitare danni certi alle piante vicine. Per l’operazione si usa un’accetta ben affilata e oggi anche la motosega. I rami che sotto il tronco si sono conficcati nel terreno restano perché tengono alto il tronco e soprattutto impediscono che lo stesso scivoli improvvisamente sul terreno in pendenza.

Fino ad alcuni decenni fa era cura del boscaiolo togliere la corteccia in ampi fogli che servivano per la copertura del “cason”, cioè del rifugio tutto in legno della compagnia dei boscaioli. La stessa inoltre, in grossi rotoli, era distribuita dalla Comunità come “brusca”, cioè assegnazione in natura in conto dei diritti di vicinanza. Ai nostri giorni la corteccia, arrotolata o scheggiata a strisce è un cascame assai poco ricercato e spesso rimane sul terreno, contrariamente alle antiche disposizioni che ordinavano sempre la conservazione di un bosco pulito.

Questa operazione una volta era fatta in autunno, quando purtroppo le intemperie e l’esposizione al sole avevano già incominciato a segnare il legno riducendone il valore. Fra l’abbattimento e la riduzione in pezzi il boscaiolo, aveva anche da procedere alla fienagione di montagna per la propria stalla, almeno da S. Giacomo (25 luglio) fino verso la fine di agosto. Naturalmente oggi ogni operazione boschiva non ha più intermezzi agricoli e in tal modo il legname si mantiene sano e compatto.

La lunghezza delle “bore” era fissata da secoli e corrispondeva a quella più utile per gli usi edilizi e commerciali. Praticamente doveva risultare, dopo il Settecento quando operarono con assiduità le segherie veneziane, della lunghezza di circa quattro metri e mezzo. Le loro teste erano smussate per agevolare l’avvallamento lungo i “tovi” naturali o nei canali allestiti appositamente dai boscaioli. Quando il legname era assai scadente, con parti poco regolari o rovinate o marce, il taglio era della metà. Spettava al capo compagnia decidere, come più abile, la lunghezza dei pezzi.

Le Qualità del Legname Tagliato in bosco

Durante il Novecento il legname veniva per lo più diviso in quattro grandi categorie:

  • le “bore” di quattro metri, legno sano, diametro regolare da un capo all’altro;
  • la “scelta”, della stessa lunghezza, ma per vari motivi meno pregiata, quindi con una diminuzione di valore del 10% circa;
  • “el vint”, comprendente tutti i pezzi che, come dice il nome, perdevano il 20% di valore, a causa di rami troppo numerosi, o di diametro irregolare, o che hanno subito danni vistosi;
  • la “legna”, comprendente quei tronchi o mezzi tronchi che non rientrano nelle precedenti categorie.

Come si è detto, la distinzione era di tipo locale o anche arbitrario. Una categoria ulteriore era costituita da tutto quel legname sottile che serviva egregiamente alla fabbricazione di imballi, di diametro tra i 14 e il 18 cm. Altra qualità ancora si chiamava “carta”, evidentemente per l’uso industriale che se ne poteva fare.

Compito delle compagnie boschive non era solo quello dell’abbattimento, ma anche quello della cura dei boschi giovani mediante una sapiente operazione di sfoltimento. È lamentela corrente che quest’uso oggi viene trascurato o svolto in modo troppo spiccio, mentre un tempo avveniva con grande cura, come quello di liberare dalle erbacce un orto. L’operazione naturalmente interveniva negli impianti boschivi giovani e assolutamente coetanei, per dare luce e spazio alle piante migliori di un impianto avvenuto dai dieci ai quindici anni prima. Si eliminavano quindi le conifere ormai perdenti nella lotta per la sopravvivenza. In questa occasione ci si preoccupava di diramare anche i tronchi già elevati per consentire un agevole percorrenza dell’uomo. Il prodotto dello sfoltimento era a sua volta suddiviso e accatastato in “longari”, pennoni diritti e puliti, “remi” più brevi, “cadene” per le palizzate, ecc.

Forme e Canali di Trasporto e di Contamento

Spetta ai boscaioli provvedere al vero e proprio esbosco perché tutti i contratti richiedono la consegna del legname presso una strada carrabile. Lavoravano quindi un tempo di comune accordo con i carrettieri e l’operazione andava sotto il nome di “condota”: i pezzi erano accostati tra loro in un solo spiazzo, il più basso della zona disboscata e di qui si procedeva all’avvallamento vero e proprio, in canali che potevano essere naturali o artificiali.

Tra le parole che stanno scomparendo troviamo i “tovi”, ripidi canali naturali in genere prodotti da rigagnoli stagionali o dalle acque del disgelo sui fianchi più ripidi del monte. La parola di origine più antica che il latino appare viva fra i nomi di luogo, ma molti ora non saprebbero indicarne il significato autentico. Quando il versante è più dolce deve essere l’uomo a costruire qualcosa di simile e scivoloso con una parte dei tronchi abbattuti, disposti a “V” romano o a culla, che poi progressivamente, dall’alto verso il basso, verranno recuperati.

Questo artificio, chiamato in genere “spianada”, è necessario anche quando bisogna superare ostacoli come l’attraversamento di ruscelli o salti rocciosi che rovinerebbero i tronchi. Ma il congegno più interessante e, come tale, noto a molti e soggetto quasi dappertutto ad un interessante recupero è quello della “cava”. Dove era necessario superare per lunghi tratti terreni difficili, verso la fine dell’Ottocento furono costruiti dei canali artificiali con ponti fissi sui torrenti, il fondo selciato e il fianchi in pietre ben levigate. Se ne conservano esempi dalla Valsorda del Forno fino a Cadino e i punti più interessanti erano i cosiddetti “sburfi”, cioè le brusche impennate in contropendenza per arrestare i tronchi e deviarli verso un nuovo tratto in basso, quasi come su una strada a tornanti. Infine in parecchie situazioni era necessario trascinare i tronchi quasi in piano per passare da un canale all’altro, mediante i “menadori”, simili a bretelle di collegamento. Condizione indispensabile per utilizzare le “cave” era la presenza della neve e del ghiaccio. Il lavoro era comunque improbo perché, se la neve era troppa, bisognava spalarla dal condotto; se mancava, bisognava creare un sottile strato di ghiaccio con spruzzi d’acqua gettati a mano. Anche con la “cava” era prima di tutto necessario accostare in piazze successive i tronchi nei pressi del canale e poi i boscaioli si disponevano lungo la stessa, nei punti di più difficile scorrimento, per controllare la regolarità della condotta. Le velocità che i tronchi raggiungevano erano davvero vertiginose e temibili; bastava un minimo ostacolo per far rimbalzare il legname e farlo sbattere contro ostacoli naturali. Il rumore simile ad un sibilo cupo riempiva la valle, interrotto da schianti o boati profondi. I boscaioli si intendevano tra loro con particolari urla di origine tirolese. Ma il pericolo era sempre incombente perché gli operai, pur muniti di grappelle, spesso scivolavano sul ghiaccio quando intervenivano a rimediare qualche inconveniente senza avvisare gli altri. Gli incidenti erano contrassegnati dal silenzio e dall’arresto della calata dei pezzi. Altre urla, questa volta di raccapriccio, chiamavano i compagni per la tragica constatazione.

Qualunque fosse il tipo di canale usato, in fondo tutto il legname era raccolto in piazze più o meno larghe e qui avveniva il lavoro del riordino, più tranquillo anche se non privo di pericoli per schiacciamenti e scivoloni. È necessario disporre tutto il legname in cataste di tale misura da consentire il contamento per il compratore o per il proprietario del bosco. Il conteggio avviene sia a pezzi che a diametro, con l’utilizzo del calibro dendrometrico detto “canà(g)ola”. Due boscaioli fanno ruotare ad uno ad uno i tronchi, ne verificano in testa che il legno sia sano, risistemano i tronchi sulle cataste o “tassogn” ordinati e definitivi. A questo punto il lavoro del boscaiolo è finito.

La giornata del boscaiolo

Un lavoro di fatica

Il boscaiolo lavorava quasi sempre in compagnia e a cottimo: maggior prodotto equivaleva a maggiore stipendio e la possibilità di portarsi a casa la parte meno pregiata della produzione.

Alzarsi alle cinque per rientrare dopo il tramonto: questa la giornata lavorativa con un’ora o poco più di sosta a mezzogiorno. Il riparo della compagnia era una capanna fatta di pali e scorza che doveva resistere per qualche mese, se il lavoro era lontano dal rientro quotidiano e comportava una lavorazione particolarmente lunga. Solo la festa era d’obbligo il ritorno in casa.

Finito l’esbosco anche il capanno veniva smantellato perché i suoi pali e la sua corteccia erano comunque utili. Il rifugio o “cason” conteneva un focolare aperto al centro con la catena da fuoco o “segosta” per il paiolo; una mensola e un basso palco di paletti smezzati tra i quali si infiggevano rametti verdi di conifera, sopra di essi uno strato di paglia che serviva da giaciglio: così era pronto il letto notturno per tutti, che si stendevano uno accanto all’altro nei rispettivi mantelli e togliendosi gli zoccoli soltanto se il clima non era troppo rigido.

Durante il giorno non sempre i boscaioli potevano scendere dalla fratta per mangiare. Allora un giovane cuciniere improvvisava un focolare al riparo di tre pietre e qualche grossa radice e coceva la polenta per tutti, lì sul posto.

Per un lavoro di tanta e prolungata fatica ci sarebbero volute quantità notevoli di calorie ovvero pasti frequenti e sostanziosi. In realtà all’alba essi si trovavano davanti polenta fredda senza sale con un po’ di formaggio, talora saporito, più spesso deteriorato; si buttava giù questa razione con alcune sorsate di caffè d’orzo. Di vino neanche l’ombra. Polenta anche a mezzogiorno, a volte con qualche fetta di lucanica; la sera invece una minestra di farina abbrustolita.

Un cenno particolare meritano le cantilene utilizzate allorché più boscaioli lavoravano con il “sapìn” intorno ad uno stesso tronco, per girarlo o spostarlo. Erano frasi ora brevissime (“gira”, “volta”, ecc., naturalmente in dialetto), ora lunghe e allungabili a piacere (“Mettila accanto alla sua nonna che le tenga caldo!” – “Se viene la testa, viene anche la coda”) che il “cantore” della compagnia urlava o recitava a mezza voce come in una litania. Importante era che il massimo sforzo venisse operato nello stesso momento da tutti.

Dovendo i boscaioli lavorare assai spesso a temperature rigide, vestivano sempre panni pesanti: le mani riparate da ruvide manopole, quasi subito indurite e impermeabilizzate dalla resina, le gambe difese da ghette di pezza infeltrita, il corpo avvolto, sopra la giacca da lavoro, in ampi e neri mantelli e lo zaino in spalla o comunque sempre vicinissimo alla posta.

Nelle sere all’interno del “cason”, lontani da casa questi lavoratori sapevano in qualche modo superare la nostalgia del focolare domestico e riempivano l’ora prima del duro sonno con racconti di folletti come il “salvanel” o presenze strane come quella dell’ “om salvadech”, ma soprattutto con confronti sapidi e salaci nei confronti di altre compagnie di boscaioli, ritenuti incapaci o così maldestri da inviare i tronchi non a valle ma addirittura al di là dei monti. Erano queste rime i “campéti” che purtroppo sono tutti finiti nel dimenticatoio, ma dovevano essere del tipo delle “Lamentazioni della Val di Fiemme”, con strofette di satira e ritornello quasi urlato e senza parole logiche.

Boscaioli1

Boscaioli di Fiemme caduti sul lavoro

A perenne memoria di coloro che, addetti alle dure mansioni di boscaiolo, hanno perso la vita in conseguenza di incidenti sul lavoro.

Accettella Luigi Cavalese 1944
Ballweber Peter Trodena 1982
Barcatta Carlo Valfloriana 1961
Bellante Costantino Cavalese 1947
Betta Giuseppe Castello 1882
Bortolotti Basilio Molina 1934
Bortolotti Giuseppe Molina 1908
Bosin Claudio Ziano 2007
Bosin Emanuele Cavalese 1908
Bozzetta Davide Daiano 1930
Cavada Cesare Molina 1948
Cavada Giuseppe Molina 1889
Cavada Nicolò fu Battista Castello 1873
Cavada Nicolò fu Giuseppe Castello 1877
Cemin Angelo Predazzo 1988
Chelodi Francesco Carano 1930
Chiocchetti Luigi Moena 1975
Chiocchetti Valentino Moena 1909
Corradini Orazio Molina 1895
Corradini Pacifico Molina 1880
Corradini Renzo Molina 1967
Corradini Romedio Molina 1862
Dagostin Emilio Daiano 1912
Dallabona Pietro Trodena 1930
Dallavalle Tommaso Sover 1882
Deflorian Fortunato Tesero 1921
Deflorian Giovanni Tesero 1926
Deflorian Pietro Panchià 1924
Dellagiacoma Tomaso Predazzo 1928
Dellantonio Simone Predazzo 1967
Dellantonio Valentino Predazzo 1934
Delmarco Gregorio Castello 1931
Delvai Davide Carano 1931
Delvai Nicolò Carano 1895
Demarchi Giorgio Molina 1899
Denardi Carlo Valfloriana 1928
Depellegrin Luigi Panchià 1919
Desilvestro Andrea Moena 1929
Desilvestro Ettore Moena 1998
Diodà Giuseppe Daiano 1892
Diodà Giuseppe Daiano 1912
Diodà Lorenzo Daiano 1912
Felicetti Bruno Moena 1986
Felicetti Giovanni Battista Moena 1991
Franzelin Heinrich Trodena 1954
Franzelin Hubert Trodena 1970
Gabrielli Fiorenzo Predazzo 2009
Giacomelli Francesco Predazzo 1924
Giacomelli Vitale Panchià 1950
Giacomuzzi Francesco Ziano 1920
Giacomuzzi Giuliano Ziano 1957
Goss Renato Varena 1935
Guadagnini Antonio Predazzo 1957
Guadagnini Giovanni Battista Carano 1953
Iori Agostino Valfloriana 1950
Iuriatti Pietro Castello 1888
Larger Francesco Castello 1871
Larger Mario Castello 1959
Larger Vitale Molina 1924
Lochmann Johann Trodena 1970
March Gregorio Molina 1935
Molinari Luigi Cavalese 1958
Morandini Enrico Predazzo 1975
Moser Giovanni Castello 1861
Piazzi Valerio Tesero 1977
Pozza Secondo Valfloriana 1947
Rovisi Antonio Moena 1908
Sardagna Luigi Castello 1946
Scarian Claudio Varena 1986
Seber Giorgio Castello 1910
Tomasi Giovanni Carano 1921
Tomasini Quirino Valfloriana 1950
Tonini Emanuele Valfloriana 1913
Tonini Giuseppe Valfloriana 1929
Vadagnini Nicolò Moena 1920
Vanzo Giuseppe Cavalese 1939
Vanzo Martino Moena 1982
Vanzo Vittorio Daiano 1960
Varesco Giuseppe Carano 1987
Varesco Valentino Panchià 1934
Vassellai Antonio Panchià 1973
Ventura Edoardo Molina 1973
Ventura Giuseppe Molina 1952
Vinante Ernesto Ziano 1944
Vinante Tommaso Tesero 1977
Volcan Celestino Panchià 1934
Weber Aquilino Cavalese 1961
Welponer Giovanni Cavalese 1919
Zanon Francesco Castello 1869
Zanon Pietro Tesero 1887
Zeni Pietro Tesero 1887
Zeni Saverio Daiano 1912
Zorzi Ernesto Molina 1886
Zorzi Ilario Molina 1928

 

I nomi sono riportati in ordine alfabetico, con indicazione del paese di provenienza e dell’anno di morte

Note bibliografiche
Per la stesura di questo inserto sono state utilizzate le informazioni contenute nel capitolo specifico dell’opera di Arturo Boninsegna “Dialetto e mestieri a Predazzo” (1980), ristampato nel 2003. Altre notizie provengono da diversi scritti del prof. Italo Giordani, tra cui “La Magnifica Comunità di Fiemme. Sintesi storica”, eccellente articolo in Dendronatura (1/1998), e “Il lavoro nel bosco in Val di Fiemme” di Agostino Bortolotti (1978).

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